Secondo Salim Lone, già direttore dell’Ufficio stampa del defunto rappresentante N.U. in Iraq, Vieira de Mello, "i principii elementari dello svolgimento di elezioni sono stati così poco rispettati che se esse avessero avuto luogo in Siria o Zimbabwe, gli USA e la Gran Bretagna per primi le avrebbero denunciate" ("The Guardian", 31 gennaio 2005). La campagna mediatica entusiastica è invece partita e tutti, critici compresi, dopo il precipitoso calo della dichiarata affluenza elettorale in Iraq dal 72% al 60% (ma lo stesso Mossad parla di 45%), si attestano su tale verità rivelata, incontrollata e probabilmente per sempre incontrollabile: forse non sapremo mai quanti irakeni hanno veramente depositato la scheda (non parliamo dei risultati veri né tantomeno delle schede bianche o nulle). Secondo "Il Messaggero" del 2 febbraio, "non ci sono dati sicuri nemmeno sulla reale percentuale dei votanti". Ma pur se fosse approssimativamente vera, la cifra conclamata non cambierebbe granché le cose. Resta comunque il dubbio che il sistema di menzogne sulla tragedia irakena (armi di distruzione di massa e tutte le altre invenzioni) potrebbe risultare ancor oggi sintomatico. Un tragico effetto potrebbe avere l’uso politico delle votazioni, il cui risultato è stato in realtà gridato da tempo: le affermate percentuali di votanti erano state per così dire vaticinate, trovando la base di fondo nella ripartizione etnico-confessionale delle tre principali componenti della popolazione irakena (sciiti, sunniti, kurdi). Si intende l’effetto di spaccatura del paese e di "guerra civile" (in realtà, tra i resistenti per l’indipendenza e gli occupanti stranieri e collaborazionisti).
Al di là delle cifre, la scarsa credibilità e la nulla legittimità delle elezioni discende da questi fattori. Elezioni in un paese in guerra e comunque occupato da truppe straniere sono per sé improbabili sotto ogni profilo: esse sono destinate per definizione a ottenere i risultati voluti dall’occupante, di fronte a "un potere esecutivo nominato di fatto dalla superpotenza occupante" e quindi fantoccio (Valli in "Repubblica" del 31 gennaio). Se si comprende poi che l’Iraq non è stato debellato e che la Resistenza incarna la continuità di quello Stato, esse costituiscono anche gravissimo illecito internazionale ai sensi delle Convenzioni dell’Aja e di Ginevra. Materialmente, poi, nessuna vera libertà per gli elettori: si pensi ad esempio che "almeno 700 seggi, nelle città ad alto rischio, sono stati trasferiti all’ultimo momento, di sorpresa, fuori dai centri abitati. E gli elettori vi sono stati accompagnati con autobus e camions" ("Repubblica", 31 gennaio). O a quanto nella stessa data e giornale testimoniato da Ansaldo per un seggio nel nord Iraq: "Il capofamiglia fa il giro completo delle parenti, le schede ben in vista. Vota lui stesso per tutti quanti". Considerato poi che invece dei certificati elettorali sono state utilizzate le tessere alimentari date da Saddam, è credibile il ricatto: "Se non votate non avrete le razioni di cibo" ("Liberazione", 2 febbraio). Soprattutto poi nessuna dialettica reale fra liste di candidati (quasi sempre segreti) e base elettorale, quale richiesta dal conclamato tipo di elezioni: chi ha votato, lo ha fatto solo sulla base di appartenenze precostituite, si tratta dunque forse, al meglio, piuttosto di una sorta di sondaggio. Per quanto si sa, poi, nei numerosi seggi sparsi per l’ampio territorio nessun controllo vero e autentica verifica (non parliamo di osservatori internazionali, sostanzialmente assenti) è stato possibile: né dei seggi effettivamente aperti e del loro orario, né della vera affluenza, né se per caso fenomeni di plurima votazione da parte di singoli sono stati evitati (non è certo il dito marchiato con inchiostro indelebile a impedire collusioni e complicità), né ovviamente sui risultati del voto, che ancora si attendono. Ecco la valutazione di Valli, il 1° febbraio: "Un voto voluto dalla potenza occupante, consentito da 160 mila soldati stranieri accampati sul suolo nazionale"; e quella del "New York Times" del 31 gennaio: "Le consultazioni di ieri non hanno affatto rappresentato un brillante esempio di democrazia… ci siamo trovati di fronte ad un elettorato… tragicamente male informato. Gran parte degli elettori votava infatti 'alla cieca’… Quasi nessuno dei 7.700 candidati ha fatto campagna elettorale o ha resa nota la propria candidatura… Questa non è democrazia. Questa è una formula per far sì che la guerra continui".
Non dimentichiamo che i seggi e soprattutto la Commissione elettorale centrale sono tutti di fiducia degli occupanti e in sottordine dei collaborazionisti. La Commissione nominata dall’ex governatore USA Bremer, fra l’altro, ha ammesso solo le liste che sostengono il "governo".
Il fondamentale elemento giuridico negativo è che tutto il processo elettorale si è svolto entro i canali prefigurati dall’ex governatore Bremer con le sue ordinanze 92, 96, 97 tuttora in vigore e non modificabili dal potere irakeno fantoccio. Ma ancor peggio: il vincolo di occupazione sostanzialmente coloniale, con l’assoggettamento dell’economia anzitutto alle potenze occupanti e con la norma costituzionale che lega le forze armate irakene (fantoccio) alla collaborazione con gli occupanti, resta in vigore ed è anch’esso sostanzialmente immodificabile: tutto è garantito poi dai 160.000 militari dell’occupazione. Dei quali, subito dopo le "elezioni", le "autorità irakene" hanno come previsto chiesto la permanenza.
Al di là del possibile effetto "guerra civile", nessuna legittimità viene da votazioni in condizione di occupazione. Resta assolutamente legittima la Resistenza all’occupante, centrata sul partito Baath e preparata prima dell’aggressione, la quale rivendica la piena indipendenza politica ed economica dell’Iraq, che viene invece compromessa dai collaborazionisti.
Pubblicato su "Il Centro" di Pescara domenica 6 febbraio 2005
Ringraziamo per l'invio il Prof. Aldo Bernardini
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