27 gennaio 2005
"Giornalismo da hotel" è questa l'unica definizione adatta. Sempre più i giornalisti occidentali a Baghdad riportano le notizie dai loro alberghi, anziché dalle strade delle città irachene. Alcuni sono scarrozzati in giro da mercenari occidentali assoldati. Qualcuno sta negli uffici locali, che i direttori impediscono loro di lasciare. La maggior parte usano i free-lance iracheni, corrispondenti part-time che rischiano la propria vita per fare interviste per conto di giornalisti americani o britannici.
Nessuno può contemplare di uscire dalla capitale, senza una preparazione di giorni, a meno che non siano "embedded" al seguito delle truppe. Raramente, se non mai, una guerra è stata raccontata dalla stampa in modo così lontano e soggetto a restrizioni. I corrispondenti del New York Times vivono a Baghdad, dietro una massiccia palizzata con Quattro torrette di sorveglianza, protetti da vigilanti armati locali, con tanto di maglietta del NYTimes. I dipendenti della televisione americana NBC sono rintanati in un hotel con una porta blindata e con il divieto di visitare la piscina e il ristorante, figurarsi il resto di Baghdad. Molti giornalisti non lasciano la propria stanza finché stanno a Baghdad. Le minacce ai giornalisti occidentali sono così gravi che alcune stazioni televisive stanno pensando di ritirare reporter e troupe.
Nel bel mezzo di una rivolta, dove gli occidentali, insieme a molti arabi ed altri stranieri, vengono sequestrati ed uccisi, fare giornalismo sta diventando quasi impossibile. La morte in video di un corrispondente italiano, l'omicidio a sangue freddo di uno dei più famosi reporter polacchi e del suo cameraman bulgaro e l'altrettanto violenta aggressione di un giornalista giapponese sulla famosa autostrada 8, a Sud di Baghdad, lo scorso anno, hanno convinto molti giornalisti che una buona dose di discrezione è un valore pregevole.
L'Independent, insieme a diversi quotidiani inglesi e americani, continua a coprire le notizie da Baghdad con I suoi inviati, che si muovono con esitazione - per non parlare della ansia - attraverso le strade di una città che viene lentamente presa dagli insorti. Solo sei mesi fa era ancora possibile uscire da Baghdad il mattino, andare fino a Mosul o Najaf o in qualche altra grande città per coprire una notizia e poi tornare entro sera. Ad agosto, mi occorrevano due settimane per contrattare la mia dubbia sicurezza per un viaggio di appena 80 miglia fuori da Baghdad. Ho trovato checkpoint deserti, le strade piene costeggiate dai resti di camion americani distrutti e veicoli della polizia incendiati. Oggi uscire è praticamente impossibile. Gli autisti e gli interpreti che lavorano per I giornali e le televisioni ricevono minacce di morte.
Più d'uno ha chiesto di venir sollevato dai propri incarichi il 30 gennaio, temendo di essere riconosciuto per strada durante le elezioni. Durante la brutale guerra in Algeria negli anni '90, furono ammazzati almeno 42 giornalisti locali ed un cameramen francese fu ucciso da un proiettile nella casbah, ma le forze di sicurezza algerine continuano a dare una protezione minima alla stampa. In Iraq, le forze di polizia non possono neppure proteggere sé stesse.
La polizia e la Guardia Nazionale - trionfalmente sventolati dagli americani come gli uomini che avrebbero preso in mano la situazione dopo il ritiro - sono infiltrate dai ribelli. I posti di blocco potranno anche essere sotto il controllo dei poliziotti, ma non è chiaro per chi questi lavorino. Le truppe USA che operano nei pressi di Baghdad vengono evitate dai giornalisti occidentali, a meno che non si tratti di "embedded", tanto quanto lo sono dagli iracheni, per via dell'indisciplina con la quale fanno fuoco sui civili al minimo sospetto. Quindi ci si fanno delle domande. Quanto vale la vita di un reporter? La notizia vale il rischio? E, molto più importante dal punto di vista etico, perché i giornalisti non raccontano delle restrizioni con le quali sono costretti a lavorare?
Durante l'invasione anglo-americana del 2003, i direttori di giornale hanno spesso insistito nell'introdurre i dispacci dei corrispondenti dall'Iraq sotto Saddam parlando delle restrizioni nelle quali i giornalisti dovevano operare. Oggi invece, quando la nostra libertà di movimento è molto più ridotta, i lettori e gli ascoltator vengono lasciati con l'impressione che i giornalisti siano liberi di girare per l'Iraq e verificare le storie che fiduciosamente compilano ogni giorno. Non è così. "L'esercito americano non potrebbe essere più soddisfatto della situazione," dice un veterano corrispondente da Baghdad.
"Sanno che se bombardano la casa di gente innocente, possono dire che era una base terroristica, e cavarsela così. Non vogliono che giriamo intorno e così la minaccia terroristica per loro è una grande notizia. Possono raccontare di aver sparato a 600 o mille ribelli e noi non abbiamo nessuna possibilità di verificare perché non possiamo andare al cimitero o visitare gli ospedali, perché non vogliamo che ci rapiscano o ci taglino la gola."
Così molti giornalisti si limitano a telefonare dalle loro stanze d'albergo ai militari statunitensi o al governo iracheno ad interim, ricevendo "fatti" da uomini e donne che sono ancora più isolate di loto, nella Zona Verde di Baghdad, nei pressi dell'ex palazzo di Saddam Hussein. Oppure prendono le loro notizie dai colleghi embedded, che per forza hanno solo la versione americana della storia. Sì, è ancora possibile riportare notizie dalle strade di Baghdad, ma siamo sempre in meno a farlo e arriverà il momento in cui dovremmo soppesare il valore dei nostri resoconti e quello del rischio che corrono le nostre vite. Non siamo ancora a questo punto. Finora continuiamo a vedere un pò più di Iraq rispetto a quelli che dicono di governare questo Paese.
Robert Fisk (tratto da The Independent, traduzione di Anna Marchi, Megachip)
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